I cittadini italiani saranno chiamati alle urne per il referendum 2025 nei giorni domenica 8 e lunedì 9 giugno.
I seggi saranno aperti dalle ore 7:00 alle 23:00 nella giornata di domenica e dalle 7:00 alle 15:00 in quella di lunedì. La scelta di distribuire la votazione su due giorni ha l’obiettivo di incentivare la partecipazione, specialmente in occasione di consultazioni popolari che richiedono il raggiungimento del quorum del 50% più uno degli aventi diritto per essere valide. La data del referendum 2025 coincide con il secondo turno delle elezioni amministrative, che si terranno in molti comuni e in alcune regioni.
Per cosa si vota: i 5 quesiti del Referendum 2025
I cittadini saranno chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari, tutti di tipo abrogativo, promossi principalmente dalla CGIL e da comitati civici. I temi affrontati riguardano lavoro, diritti dei lavoratori e cittadinanza, con l’obiettivo di modificare o eliminare specifiche disposizioni legislative attualmente in vigore.
Il primo quesito punta a ripristinare la possibilità di reintegro nel posto di lavoro per i dipendenti licenziati senza giusta causa, superando le norme introdotte dal Jobs Act che prevedevano solo un’indennità economica.
Il secondo, invece, riguarda i lavoratori delle piccole imprese: si chiede di eliminare il limite massimo all’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo, lasciando maggiore libertà al giudice nel calcolo del risarcimento.
Il terzo quesito propone di limitare l’abuso dei contratti a termine, tornando a vincoli più rigidi per il loro utilizzo e contrastando forme di precarizzazione.
Il quarto mira a rafforzare la responsabilità delle imprese negli appalti, chiedendo di abrogare alcune norme che, secondo i promotori, riducono le tutele dei lavoratori in caso di infortuni sul lavoro.
Infine, il quinto quesito riguarda il tema della cittadinanza italiana: si propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo minimo di residenza necessario per i cittadini extra-UE per ottenere la cittadinanza italiana, facilitando il percorso di integrazione.
Vediamo ora in modo particolareggiato cosa prevedono i cinque quesiti referendari.
Quesito 1: Reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo
Il primo quesito referendario riguarda la disciplina dei licenziamenti introdotta dal Jobs Act nel 2015, in particolare per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Attualmente, chi è stato assunto dal 7 marzo 2015 nelle aziende con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo ha diritto solo a un indennizzo economico predeterminato, senza possibilità di reintegro nel posto di lavoro, tranne in rarissimi casi. Questa regola ha limitato fortemente la tutela reale contro i licenziamenti ingiusti, prevista invece prima della riforma per la generalità dei lavoratori.
Il quesito propone quindi di tornare al sistema precedente al Jobs Act, ripristinando la possibilità per il giudice di ordinare il reintegro in azienda anche per chi è stato assunto dopo il 2015, in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo.
Il testo del quesito è il seguente: “Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante ‘Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183’ nella sua interezza?”
Se approvato, il referendum comporterebbe l’abrogazione totale del decreto legislativo n. 23/2015, eliminando le tutele crescenti e consentendo di applicare a tutti i lavoratori il sistema di tutele precedente, basato sulla valutazione del giudice e, in alcuni casi, sul reintegro nel posto di lavoro.
Quesito 2: Maggiore tutela nei licenziamenti delle piccole imprese
Il secondo quesito referendario si concentra sui lavoratori impiegati nelle piccole imprese, cioè quelle con meno di 16 dipendenti. Attualmente, in caso di licenziamento illegittimo, la legge prevede un risarcimento economico limitato: il massimo previsto è di 6 mensilità, aumentabile in alcuni casi fino a 14, ma solo per aziende con più di 15 dipendenti e con lavoratori particolarmente anziani in servizio. Questo tetto fisso, secondo i promotori del referendum, limita fortemente le possibilità per il giudice di valutare la gravità del licenziamento e di disporre un risarcimento equo.
L’obiettivo del quesito è dunque quello di abrogare il limite massimo all’indennizzo, lasciando al giudice la libertà di determinare l’entità del risarcimento in base alle circostanze specifiche del caso, come già avviene in altri settori del diritto del lavoro.
Il testo del quesito è il seguente: “Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro”?”
Se approvato, il quesito eliminerebbe i vincoli normativi al risarcimento, aumentando potenzialmente le tutele economiche per chi lavora nelle piccole imprese, in caso di licenziamento senza giusta causa.
Quesito 3: limiti ai contratti a termine e ritorno all'obbligo di causale
Il terzo quesito referendario riguarda la disciplina dei contratti a tempo determinato, e in particolare la possibilità oggi concessa ai datori di lavoro di stipulare contratti senza causale (cioè senza indicare un motivo specifico) per i primi 12 mesi. Le modifiche introdotte dal decreto dignità nel 2018 avevano già ristretto parzialmente questa libertà, ma l’attuale normativa consente ancora di utilizzare contratti a termine senza giustificazione entro il primo anno, e di prorogarli o rinnovarli con causali molto ampie, spesso definite direttamente dalle parti.
Il quesito propone di eliminare questa possibilità, rendendo obbligatoria la presenza di una causale giustificativa fin dall’inizio del contratto a termine e limitando l’autonomia delle parti nel definirla. Si vuole così contrastare il ricorso sistematico e, secondo i promotori, abusivo ai contratti precari, incentivando forme di lavoro più stabili e garantite.
Il testo del quesito è il seguente: “Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole […] articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?”
Se il quesito sarà approvato, si tornerà a un sistema in cui ogni contratto a termine dovrà essere giustificato da esigenze concrete, riducendo così la flessibilità per le imprese, ma aumentando la tutela dei lavoratori contro la precarizzazione.
Quesito 4: responsabilità negli appalti e sicurezza sul lavoro
Il quarto quesito referendario affronta un tema cruciale: la tutela dei lavoratori negli appalti e la responsabilità in caso di infortuni sul lavoro. La normativa attuale (art. 26, comma 4, del Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro) stabilisce che il committente è responsabile in solido con l’appaltatore e i subappaltatori per i danni subiti dai lavoratori non coperti da INAIL o IPSEMA. Tuttavia, esclude tale responsabilità quando il danno è causato da rischi specifici dell’attività dell’appaltatore o del subappaltatore, limitando così l’obbligo del committente.
Il quesito propone di abrogare questa esclusione, ampliando la responsabilità del committente anche ai rischi specifici dell’appaltatore, cioè ai danni legati alle caratteristiche particolari dell’attività svolta. In altre parole, si vuole rendere il committente sempre co-responsabile degli infortuni, anche se questi derivano da situazioni che attualmente rientrano nella sola sfera dell’appaltatore.
Il testo del quesito è il seguente: “Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 […] limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici?”
Se il referendum avrà esito positivo, la responsabilità del committente sarà rafforzata, con l’intento di aumentare la sicurezza dei lavoratori, spingendo le imprese a esercitare un maggiore controllo sull’operato di chi viene incaricato attraverso appalti o subappalti.
Quesito 5: Cittadinanza italiana dopo 5 anni di residenza legale
Il quinto quesito referendario interviene sulla legge n. 91 del 1992 in materia di cittadinanza, con l’intento di semplificare e accelerare l’accesso alla cittadinanza italiana per gli stranieri non comunitari. Attualmente, uno straniero può ottenere la cittadinanza per naturalizzazione solo dopo almeno 10 anni di residenza legale continuativa in Italia. Inoltre, è prevista una norma specifica per i minori adottati da cittadini italiani, che ottengono la cittadinanza solo se adottati formalmente.
Il quesito propone due modifiche: da un lato, abrogare la norma che prevede il requisito dei 10 anni di residenza, riducendo di fatto a 5 anni il termine minimo richiesto; dall’altro, eliminare il riferimento all’adozione, in modo da estendere automaticamente il diritto alla cittadinanza anche ai figli minorenni dei nuovi cittadini, indipendentemente dalla modalità con cui sono entrati nel nucleo familiare.
Il testo del quesito è il seguente: “Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza?”
Se approvato, il referendum ridurrebbe da 10 a 5 anni il periodo di residenza necessario per fare richiesta di cittadinanza, favorendo l’integrazione degli stranieri che vivono stabilmente in Italia e garantendo automaticamente il diritto anche ai figli minorenni. Secondo i promotori, questa riforma risponderebbe meglio alla realtà sociale di oggi, riconoscendo il ruolo attivo degli stranieri nella vita economica e culturale del Paese.